Il sindaco Luca Vecchi è intervenuto questa mattina, nella Sala del Tricolore del Municipio, alla cerimonia di commemorazione degli 80 anni dall’eccidio dei sette Fratelli Cervi e di Quarto Camurri, caduti per mano fascista il 28 dicembre del 1943: Agostino, Aldo, Antenore, Ettore, Ferdinando, Gelindo e Ovidio (i sette fratelli Cervi), vennero fucilati insieme a Quarto Camurri nel poligono di tiro cittadino.
Oltre al sindaco, sono intervenuti Giorgio Zanni (presidente della Provincia di Reggio Emilia), Fabio Spezzani (membro del cda dell’Istituto Alcide Cervi) e Alessandro Pollio Salimbeni (vicepresidente dell’Anpi nazionale). L’orazione ufficiale è stata tenuta dal presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini. La cerimonia si è chiusa con il concerto “Oltre il ponte”, a cura dell’associazione “I parchi della musica”.
“Non vi nascondo che ogni anno la celebrazione dell’anniversario dell’eccidio dei sette fratelli Cervi e di Quarto Camurri porta con sé un certo grado di emozione, per la solennità e la profondità di un momento che consideriamo parte integrante e fondamentale della nostra storia – ha detto il sindaco Luca Vecchi – Credo che nella biografia dei fratelli Cervi e nella loro vicenda umana, familiare, privata e collettiva, ci sia anche tanto dell’autobiografia di una città, di una provincia, di una comunità e, auspicabilmente, di un Paese intero.
I Cervi sono stati tante cose: hanno portato nella loro esperienza una molteplicità di significati che si intrecciano con il tracciato storico di questa comunità. Erano una famiglia contadina, dedita alla coltivazione delle terre e alla ricerca delle migliori tecnologie del tempo da applicare a questa pratica. Avevano una visione del futuro, portavano con sé un’etica del lavoro e di una cultura di impresa che – in una certa misura – è stata un elemento distintivo che ha accompagnato la storia dell’Emilia. Questa visione progressiva di ricerca del futuro l’ha sintetizzato il papà Alcide, quando disse “avevo sette figli, ora ho otto nipoti; avevo quattro vacche, ore ne abbiamo cinquantaquattro; avevamo dei debiti ed eravamo mezzadri, ora le nuore e i figli, facendo debiti, hanno comprato il fondo”.
“Io credo – ha proseguito il sindaco Vecchi – che i Cervi siano stati anche un simbolo anticipatore di un altro tratto distintivo del nostro modo di essere: per quella convinzione molto forte che i genitori e la famiglia avevano del valore dell’educazione, della conoscenza, della formazione e dell’emancipazione. L’educazione come percorso verso la libertà, che poi è divenuta modo di essere di una comunità locale riconoscibile in Italia e nel mondo.
In particolare Casa Cervi fu anche casa dell’accoglienza delle tante diversità culturali, delle diversità nazionali, delle diversità che appartenevano già allora a una dimensione globale. Anche in questo c’è un tratto ineludibile e coerente con quella che è stata la storia di una comunità cittadina e provinciale, che ha saputo costruire intorno al riconoscimento delle diversità culturali e religiose la ragione fondamentale della propria convivenza civile, dei propri processi di integrazione e della nostra stessa contemporaneità. Noi non saremmo quello che siamo oggi se non avessimo già avuto fin da allora quei valori e quei principi che forse hanno radici ancora più antiche, da quando oltre duemila anni fa in queste terre, lungo una strada che si chiamava Emilia, tante genti e tanti popoli di culture e religioni diverse si ritrovarono e costruirono un’idea di comunità. Un’idea in cui quella strada – che connetteva molti luoghi – non era un elemento di divisione ma un elemento di unità tra le tante diversità. Quel mappamondo e quel trattore che sta sotto il portico di Casa Cervi portano con sé il simbolo della terra da un lato, e della visione globale dall’altro.
E c’era già allora, in quella esperienza familiare, il radicamento forte nell’identità locale e la consapevolezza di una visione globale dei problemi e della vita quotidiana. C’era cioè già allora quell’esigenza ancora oggi attuale di tenere ogni giorno collegata all’identità locale una connessione con la dimensione globale.
“Ma i Cervi furono anche un’esperienza chiara e inequivocabile di identità familiare, un esempio di fratellanza e di solidarietà: scelsero insieme di coltivare quel fondo e di praticare quel lavoro, scelsero insieme di opporsi al regime, scelsero insieme di andare incontro al proprio destino, anche nella consapevolezza di avere delle famiglie alle spalle, con mogli e figli. In tutto questo vi era un senso di unità e consapevolezza di appartenenza a un destino comune, che credo sia un altro degli elementi fondamentali e ineludibili di quella esperienza umana e collettiva.
Trovarci ogni anno a ricordare l’eccidio dei fratelli Cervi non è soltanto un esercizio di memoria, un ricordo doveroso: quel ricordo e quella memoria restano nel tempo, anche oggi a distanza di ottant’anni, nella misura in cui il continuo divenire dell’evoluzione e della storia di una città, di una provincia, di una comunità e di un Paese con i suoi popoli, si intreccia con i destini mutuali, e quei fatti anche dolorosi diventano parte integrante della costruzione di una memoria collettiva e di un’identità comune. La storia della nostra città e della nostra provincia è una storia lunga e faticosa di ricerca e ritrovamento di una libertà e di una dignità che ha naturalmente nella Resistenza e nella Liberazione il momento più importante e fondativo di un’identità contemporanea.
Il fascismo cercò di cancellare tutto questo, e lo fece perché era intrinseca a un regime autoritario l’idea di cancellare la persona e la sua dignità. È questo soprattutto l’elemento che distingue una democrazia, nella sua capacità di riconoscere libertà e diritti delle persone, da un regime che ha invece nell’autorità e nella repressione della persona e nella cancellazione delle storia la fonte di legittimazione del proprio potere. Il fascismo cercò di fare questo, di produrre questa cultura. E oggi credo che, a ottant’anni di distanza, il punto non è tanto di evocare il rischio di nuovi fascismi quanto di avere la consapevolezza del senso e del significato profondo di quella storia che oggi celebriamo, che non è ancora diventata fino in fondo patrimonio comune di un intero Paese. È una cosa che dobbiamo dirci con molta chiarezza, e credo che rappresenti uno degli elementi di fragilità politica, culturale e valoriale della storia stessa dell’Italia.
Ci sono fatti, episodi, luoghi, eventi che vanno al di là delle divisioni politiche, ideologiche, religiose e che rappresentano momenti costituenti in cui un’intera comunità sente di appartenere al proprio destino: per noi, e credo per tanti, lo è stato quel 28 dicembre 1943, come parte integrante del nostro calendario civile, e lo è stato in tantissimi momenti che hanno caratterizzato la storia dell’antifascismo e della Resistenza. Per l’Italia lo è stato in tanti momenti del Dopoguerra, lo è stato negli anni dello stragismo, lo è stato quando Cosa Nostra attaccò le istituzioni dello Stato, in tutti qui momenti il Paese ha trovato la forza di sentirsi parte di un comune destino, andando oltre le divisioni che potevano legittimamente accompagnare la quotidianità. Se c’è un impegno che dobbiamo prenderci nel guardare al presente e soprattutto al futuro nel ricordare gli ottant’anni dall’eccidio dei fratelli Cervi è quello di fare nostra la visione morale che accompagnò la vita e il sacrificio dei fratelli Cervi e di Quarto Camurri, farla nostra nel quotidiano in un percorso costante verso il futuro”.