In pubblico manager di successo, imprenditori coraggiosi e leader invidiati; nel privato padri assenti, taciturni o egoisti, capaci di ostentare teorie educative che non hanno, però, alcun riscontro nella realtà. Sono i padri della cosiddetta ‘alta società’ italiana, secondo una ricerca realizzata dal mensile Class in edicola in questi giorni, e condotta su 766 tra manager, imprenditori e liberi professionisti di età compresa fra i 30 e i 65 anni.


Dall’indagine emerge che, all’interno di questa tipologia, sette padri su dieci parlano poco, pochissimo o mai con i figli.
Mancanza di tempo? Gap generazionale? Incomprensioni?
Un pò tutto. In cima alla lista degli argomenti tabù ci sono il parlare di se stessi, del futuro dei ragazzi o dei problemi familiari.
E tra i valori da trasmettere? Solo uno su quattro mette la famiglia.

Solo il 4% parla con i figli ‘sempre’, l’8% ‘spesso’ e il 16% ‘abbastanza’. La fetta più grande (37%) confessa di parlarci ‘poco’, mentre il 26% ‘pochissimo’ e il 9% ‘mai’. Quali sono gli argomenti più difficili da affrontare per i padri-manager italiani? Innanzitutto parlare di se stessi, una difficoltà comune al 74% dei genitori intervistati, ma anche discutere del futuro dei figli (61%) o dei problemi di famiglia (45%). Si parla a fatica e con difficoltà del mondo giovanile in genere (40%), di quello che accade ogni giorno (32%) e di tutte le questioni importanti che agitano il mondo (24%).

A ogni modo, i valori importanti, quelli che i padri vorrebbero trasmettere ai figli restano l’onestà (58%), la lealtà (52%), l’attaccamento al lavoro (43%). Solo il 25% (uno su quattro) dice ‘la famiglia’ e il 20% ‘la fede in Dio’.

Class ha stilato, inoltre, una tipologia dei padri di oggi suddivisi per fasce generazionali. Si incomincia dai cosiddetti ‘professionisti’: di età compresa fra i 30 e i 40 anni, sono genitori giovani che leggono tutto su puericultura e psicologia evolutiva ma che, con la loro fissazione per le formule scientifiche, a fatica riescono a penetrare il mondo reale dei figli.

Poi ci sono gli ‘amiconi’: età 40-50 anni, sono genitori spesso separati o divorziati. Talvolta depressi e problematici, usano il linguaggio dei figli per cercare di avvicinarsi goffamente a loro. Viene poi il turno dei ‘self-made-men’: è la generazione dei cinquantenni, reduci degli anni ’80. Ricchi e soddisfatti di sè, hanno sempre trascurato i figli e la famiglia, anteponendo ad essi lavoro e carriera. Adesso vorrebbero recuperare, ma si trovano di fronte a dei perfetti estranei che li detestano o li ignorano. Quarta categoria, quella dei ‘predicatori’: ultrasessantenni, sono gli ultimi custodi della tradizione, i puristi della ‘famiglia prima di tutto’. Gli unici che riescono ancora a dare gli orari per rientrare a casa o a fissare regole e codici di comportamento. Parlano continuamente, lamentandosi dei ‘giovani d’oggi’.

Infine, i ‘bambinoni’: assolutamente trasversali per età, affetti dalla ormai stranota ‘sindrome di Peter Pan’, sono loro i veri scapestrati della famiglia. Affetti da immaturità cronica e ansia da giovanilismo, spesso si dimenticano del loro ruolo e si trovano a farsi guidare invece che essere loro a fare da guida.

(Fonte: Ansa)