E’ tutto italiano il nuovo test rapido per la diagnosi della tubercolosi, un’infezione che ancora oggi colpisce un terzo della popolazione mondiale. La
metodica è stata messa a punto e brevettata all’Istituto Spallanzani di Roma e consente di distinguere in 2 giorni chi ha la malattia latente da chi ce l’ha in fase attiva, individuando
le due tipologie di paziente.
Il nuovo test rapido per la immunodiagnosi della
tubercolosi – sviluppato da un gruppo di ricercatori dello Spallanzani guidato da Delia Goletti e il cui studio è pubblicato a marzo sulla rivista ‘Clinical Infectious Deseases’ – consente dunque, per la prima volta, di distinguere, in 2 soli giorni, le persone con infezione latente da quelle con
tubercolosi attiva. Non solo, il test permetterà, nei pazienti con tubercolosi attiva, di monitorare l’efficacia della terapia.
”Con questa scoperta – ha affermato il commissario
straordinario dello Spallanzani Raffaele Donnorso – l’Istituto risponde ancora una volta alla necessità della comunità scientifica e del Paese di sviluppare tecnologie essenziali a fronteggiare le malattie infettive”.
Ogni anno, nel mondo si registrano circa 3 milioni di decessi correlati con la tubercolosi e si stima che un terzo della popolazione mondiale sia infettata. La possibilità di rilevare
accuratamente e rapidamente l’infezione, sottolineano gli esperti, è cruciale per un controllo globale dellatubercolosi, soprattutto nei pazienti con infezione da HIV, data la loro maggiore suscettibilità all’infezione e allo sviluppo della malattia attiva. Attualmente, la diagnosi di tubercolosi attiva si basa ancora in buona parte sull’esame colturale, con lunghi tempi di attesa per la risposta (2-6 settimane).
”L’utilizzo di questo test – ha rilevato il direttore
scientifico dello Spallanzani, Giuseppe Ippolito – avrà importanti benefici in termini di Sanità pubblica. Infatti,una diagnosi rapida porterebbe all’identificazione dei pazienti che hanno una tubercolosi attiva con l’attuazione immediata di
misure contenitive di isolamento respiratorio, rendendo quindi possibile una riduzione del rischio di diffusione dell’infezione e l’inizio – ha concluso – di una terapia idonea per il paziente”.