I Neandertal iniziavano lo svezzamento dei loro neonati intorno al quinto o sesto mese d’età, un periodo del tutto simile a quanto avviene per l’uomo moderno. La scoperta deriva dal lavoro di un gruppo internazionale di ricerca guidato da studiosi dell’Università di Bologna che ha realizzato analisi geochimiche ed istologiche su tre denti da latte appartenuti a bambini di Neandertal vissuti tra 70.000 e 45.000 anni fa nell’Italia nord-orientale.

I risultati ottenuti – pubblicati sulla rivista PNAS – hanno permesso di ricostruire il ritmo di crescita e i tempi di svezzamento dei neonati neandertaliani. In modo simile a quanto avviene negli alberi, infatti, il processo di crescita dei denti produce delle “linee di accrescimento” dalle quali è possibile ottenere informazioni attraverso tecniche di analisi istologica. Combinando queste informazioni con dati sulla composizione chimica ottenuti con la spettrometria di massa, gli studiosi sono riusciti a stabilire che i bambini a cui sono appartenuti i denti analizzati hanno iniziato a mangiare cibo solido tra i cinque e i sei mesi d’età.

“L’inizio dello svezzamento è collegato alla fisiologia dei neonati più che a fattori culturali”, dice Alessia Nava, del DANTE – Diet and ANcient TEchnology Laboratory al Dipartimento di Scienze Odontostomatologiche e Maxillo Facciali della Sapienza, ora ricercatrice Marie Curie della University of Kent (Regno Unito) e co-prima autrice dello studio. “Per l’uomo moderno, infatti, a prescindere dal tipo di cultura e di società, l’introduzione nella dieta di cibo solido avviene attorno al sesto mese, quando il bambino inizia ad aver bisogno di un maggior apporto energetico: ora sappiano che la stessa tempistica valeva anche per i Neandertal”.

“Se facciamo un confronto con altri primati – aggiunge Federico Lugli, ricercatore dell’Università di Bologna e co-primo autore dello studio – è molto probabile che l’alto livello di risorse energetiche richiesto per il processo di crescita del cervello umano porti alla necessità di una precoce introduzione di cibi solidi nella dieta dei neonati”.

Queste nuove informazioni permettono di ricostruire importanti caratteristiche e comportamenti dei Neandertaliani. In particolare, permettono di escludere che il numero ridotto della popolazione dei Neandertal potesse essere legato a tempi di svezzamento più prolungati rispetto all’Homo sapiens, elemento che avrebbe portato ad una minore fertilità.

“I risultati di questo studio mostrano che i Neandertal e l’Homo sapiens condividono una richiesta energetica simile nel corso della prima infanzia e un simile ritmo di crescita”, spiega Stefano Benazzi, professore dell’Università di Bologna, tra i coordinatori dello studio. “Questi elementi suggeriscono che i neonati di Neandertal dovevano avere un peso simile a quello dei nostri neonati: ciò indicherebbe anche una simile storia gestazionale, un simile processo di sviluppo nelle prime fasi di vita e forse anche un possibile intervallo tra le gravidanze più breve di quanto si è pensato finora”.

I tre denti da latte al centro dello studio sono stati rinvenuti in un’area circoscritta dell’Italia nord-orientale, tra le attuali provincie di Vicenza e di Verona: presso il Riparo del Broion, nella Grotta di Fumane e nella Grotta de Nadale. Insieme alle informazioni sulla dieta e sul processo di crescita dei bambini, l’analisi dei reperti ha permesso di ottenere anche indicazioni sugli spostamenti dei gruppi di Neandertal che abitavano quella regione.

“Si spostavano meno di quanto ipotizzato in precedenza”, dice Wolfgang Müller, professore della Goethe University Frankfurt (Germania), tra i coordinatori dello studio. “L’analisi degli isotopi dello stronzio presenti nei denti studiati indica infatti che questi bambini hanno passato gran parte del tempo nelle vicinanze del loro luogo di origine: un comportamento che denota una mentalità moderna, collegata probabilmente ad un utilizzo attento delle risorse che avevano a disposizione in quella regione”.

“Nonostante ci sia stato un abbassamento generalizzato delle temperature nel periodo analizzato, l’Italia nord-orientale è quasi sempre rimasta una regione ricca di risorse, in termini di cibo, di diversità di ambienti naturali e per la presenza di grotte: tutti elementi che aiutano a spiegare la sopravvivenza dei Neandertal in quest’area fino a circa 45.000 anni fa”, dice Marco Peresani, professore dell’Università di Ferrara, tra i coordinatori dello studio e responsabile degli scavi nella Grotta de Nadale, in quella di Fumane e, in condivisione con Matteo Romandini ricercatore all’Università di Bologna, al Riparo del Broion.

Pubblicato sulla rivista PNAS con il titolo “Early life of Neanderthals”, lo studio è stato promosso e guidato da Stefano Benazzi, professore al Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna e Principal Investigator del progetto di ricerca europeo SUCCESS (ERC Starting Grant No. 724046), che ha l’obiettivo di capire quando l’uomo moderno sia arrivato nell’Europa meridionale, i processi bio-culturali che hanno favorito il suo successo adattativo e le cause che hanno portato all’estinzione del Neandertal.

Hanno partecipato studiosi dell’Università di Bologna, della University of Kent (Regno Unito), del Goethe University Frankfurt (Germania), dell’Università di Ferrara, dell’Università di Modena e Reggio Emilia, dell’Istituto di geologia ambientale e geoingegneria (IGAG) – CNR, del Centro Internazionale di Fisica Teorica “Abdus Salam”, dell’Università di Firenze, della Sapienza Università di Roma, del Natural History Museum of London (Regno Unito).