Uno stato di completo ritiro sociale, così lo psichiatra giapponese Saitō (1998) caratterizzò la condizione degli hikikomori (in giapponese “stare in disparte”), quei ragazzi – per lo più adolescenti – che si isolano nella loro stanza, rinunciando a tutto e tutti. Negli anni 2000 questa manifestazione psico-sociale si è mostrata anche al di fuori della cultura giapponese. Anche in Italia il fenomeno era ancora poco conosciuto ma si è diffuso progressivamente: solo nella nostra regione l’Ufficio Scolastico Regionale dell’Emilia-Romagna con lo studio Adolescenti “eremiti sociali” (http://istruzioneer.gov.it/wp-content/uploads/2018/11/2018-nov-6-alunni-ritirati-in-casa-ALLEGATO.pdf) ha rilevato 346 segnalazioni (164 maschi e a 182 femmine) da parte degli istituti scolastici. L’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna analizza il tema, per chiarire alcuni fraintendimenti, aiutare a individuare i primi sintomi e suggerire possibili soluzioni.
Questo fenomeno, che non deriva da un disturbo mentale preesistente e non è assimilabile ad altre situazioni apparentemente simili, potrebbe avere cause diverse – caratteriali, sociali e familiari – o essere il risultato di una serie di concause. Il denominatore comune è dato sia dall’isolamento – dovuto soprattutto alla paura del confronto con l’altro – che può durare mesi o anni, sia dal fatto che è una manifestazione che non si risolve spontaneamente.
Nel nostro Paese, l’identikit dei ragazzi hikikomori è quello di un giovane tra i 13 e i 25 anni, di famiglia benestante, spesso figlio unico di genitori separati. In molti casi si tratta di ragazzi senza problemi di rendimento scolastico, eppure tendono a chiudersi, fino a farlo completamente. Si tratta di una modalità difensiva psicologica, messa in atto volontariamente e in modo consapevole per far fronte alle eccessive aspettative sociali tipiche della società odierna, sempre più caratterizzata da un’esasperata competizione, tesa a rincorrere e superare l’altro.
Quando il divario tra la percezione di sé e le sollecitazioni di genitori, insegnanti e coetanei, avvertite come pressioni psicologiche, diventa troppo grande, i ragazzi possono sperimentare sentimenti di impotenza, perdita di controllo e di fallimento. Questi sentimenti negativi possono portare a un atteggiamento di rifiuto verso tutte le situazioni relazionali avvertite come cause di malessere, portando i ragazzi a difendersi autoescludendosi nel tentativo di proteggersi dal mondo esterno, del quale temono il giudizio.
Si rifiutano di uscire, di vedere altre persone e di avere rapporti sociali, vivono interamente nella loro stanza. La camera diventa il rifugio dove leggere, disegnare, dormire, mangiare, giocare con i videogiochi, chattare e navigare su internet e dove salvaguardarsi dal sentimento della vergogna che nasce dal timore di non essere all’altezza delle aspettative. Un hikikomori, passando molto tempo nello stesso spazio, l’ambiente-stanza, ripetendo la stessa routine quotidiana e le stesse attività, si costruisce un mondo che gli può apparire come l’unico possibile per sé.
La sindrome di hikikomori non è riconosciuta come malattia, è un disagio che se non curato può portare a una situazione patologica. Spesso viene scambiata erroneamente con altre psicopatologie come la dipendenza da internet, la depressione e fobia sociale. Queste, dopo un lungo periodo di isolamento, possono manifestarsi, ma questi stati sono l’effetto non la causa.
L’inizio e la fine delle scuole superiori sono tra i momenti di maggiore rischio per l’insorgere del problema, perché i ragazzi si trovano a confrontarsi con contesti nuovi e, contemporaneamente, l’impegno per le scelte che indirizzeranno il loro futuro sociale e lavorativo richiede un’importante messa alla prova psicologica. Il primo allarme può essere rappresentato da frequenti assenze da scuola, altri segnali possono essere, oltre alla autoreclusione nella propria stanza, l’inversione del ritmo sonno-veglia e la preferenza per le attività solitarie.
Commenta Anna Ancona, Presidente dell’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna: “avere un figlio hikikomori è una sfida difficile per i genitori. Richiede un impegno quotidiano, soprattutto psicologico, che spesso necessita di un supporto mirato. Sono di fatto i genitori a chiedere l’intervento che avverrà nelle forme e nei modi che ciascuno psicologo riterrà opportuno, compresa la possibilità di recarsi a domicilio. Il ragazzo non vede il motivo per chiedere aiuto allo psicologo: a suo dire sta bene, avendo eliminato all’origine le fonti del proprio disagio. La presa in carico psicologica di una persona che decide di autoescludersi, di rinchiudersi nella propria stanza, è un lavoro complesso e delicato. Condurre il ragazzo fuori casa non deve essere l’obiettivo principale della relazione ‘terapeutica’; inizialmente è fondamentale poter stare insieme a lui, entrare nel suo mondo per favorire, rispettandone i tempi e attivandone le risorse, un cambiamento sia al livello del pensiero che dell’azione. L’accompagnamento verso il mondo esterno può avvenire solo successivamente, quando il giovane sarà in grado di affrontare progressive esperienze relazionali che ne favoriscano lentamente il reintegro nella società”.