Gli Sherpa, specialmente quelli che abitano la Rolwaling Valley, una remota valle nepalese sul versante meridionale dell’Himalaya, sono i candidati ideali per svelare come l’uomo sia stato capace di adattarsi all’ipossia ipobarica, la riduzione della disponibilità di ossigeno ad alta quota. Lo rivela una ricerca dell’Università di Bologna da poco pubblicata su Scientific Reports, rivista del gruppo Nature, che ha fatto luce sulla loro origine e su quella comune di tutti i popoli Tibeto-Birmani.
Lo studio – condotto presso il Laboratorio di Antropologia Molecolare del Dipartimento di Scienze Biologiche Geologiche e Ambientali dell’Alma Mater – ha analizzato il patrimonio genetico delle popolazioni di origine est asiatica che abitano le valli di media e alta quota del versante nepalese dell’Himalaya con l’obiettivo di ricostruirne la storia biologica e demografica.
I popoli Tibeto-Birmani
“Parliamo di un gruppo molto eterogeneo di popolazioni – spiega il ricercatore Unibo Marco Sazzini, coordinatore dello studio – che dalla Cina sono giunte fino alla Birmania, al Bhutan, all’India e al Nepal, diffondendosi così anche lungo il versante meridionale della catena montuosa più alta del mondo”. Popoli che dal punto di vista linguistico sono identificati come Tibeto-Birmani, ma di cui, prima di questa ricerca, non sapevamo molto. “Si pensa che abbiano avuto origine da un’antica popolazione migrata verso sud dalla Cina occidentale, durante il Neolitico”, continua Sazzini. “Esistono alcune evidenze archeologiche e linguistiche che supportano questa teoria, ma l’ancestralità biologica di questi popoli fino ad oggi non era ancora stata chiarita”.
Per la prima volta, allora, il gruppo di ricerca dell’Alma Mater ha studiato i profili genomici di abitanti della remota valle nepalese della Rolwaling, al confine con il Tibet. È stato così analizzato il DNA di individui delle comunità Tamang di media quota, che vivono a circa 2000 metri di altitudine, e delle comunità Sherpa di alta quota, insediate in villaggi a più di 3600 metri di altitudine. I dati sono stati poi confrontati con un ampio campione di soggetti rappresentativi di svariati gruppi etnici asiatici.
Differenze di quota
Proprio la differenza di quota dei diversi villaggi sembra essere la chiave per decifrare i contatti tra popolazioni e i processi demografici avvenuti in quest’area. “Gli antenati dei Tamang e della maggior parte degli odierni gruppi Tibeto-Birmani di bassa quota – spiega Guido Alberto Gnecchi Ruscone, dottorando Unibo e primo autore del lavoro – sono andati incontro a molteplici mescolamenti con altre popolazioni, prima della Cina e poi del subcontinente indiano. Al contrario, gli antenati degli odierni Tibetani e degli Sherpa si sarebbero spostati a quote sempre maggiori addentrandosi nel cuore dell’altopiano del Tibet, rimanendo via via sempre più isolati”.
Anche tra questi popoli di alta quota, però, ci sono differenze. “I gruppi tibetani che tuttora risiedono ad alta quota sul versante settentrionale dell’Himalaya – continua Gnecchi Ruscone – hanno comunque mantenuto un certo livello di scambio genico con popolazioni est asiatiche di bassa quota. Gli Sherpa migrati sul versante himalayano meridionale nella Rolwaling Valley, invece, non presentano tracce di questo mescolamento”.
Adattarsi all’ipossia
Un popolo che vive oltre i 3600 metri di quota e che si è sottotratto alla complessa rete di migrazioni e mescolamenti che ha storicamente caratterizzato i gruppi Tibeto-Birmani. Per questi motivi, gli Sherpa che abitano la Rolwaling Valley sono soggetti ideali per studiare l’adattamento umano all’ipossia senza le complicazioni derivanti da un’intricata storia demografica.
“Stiamo sequenziando l’intero genoma di questi individui – aggiunge Sazzini – per identificarne con precisione le regioni modellate dalla selezione naturale in risposta alle pressioni ambientali dovute all’alta quota. In questo modo potremo capire quali varianti genetiche hanno permesso l’evoluzione di un adattamento permanente di queste popolazioni all’ipossia, fornendo così, in un’ottica di Medicina Evolutiva, indicazioni utili anche in ambito biomedico per la comprensione delle risposte fisiologiche e cellulari del nostro organismo alla carenza di ossigeno”.
I protagonisti della ricerca
Lo studio, coordinato da Marco Sazzini, ricercatore presso il Laboratorio di Antropologia Molecolare e il Centro di Biologia Genomica del Dipartimento di Scienze Biologiche Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna, ha visto impegnati diversi studiosi, fra cui Guido Alberto Gnecchi Ruscone (primo autore del lavoro), Sara De Fanti, Stefania Sarno, Michela Trancucci, Davide Pettener e Donata Luiselli. Hanno collaborato anche ricercatori del Dipartimento di Genetica Umana dell’Università di Chicago, del Max Planck Institute for the Science of Human History di Jena e del Centro di Ricerche e Tecnologie Biomediche dell’Istituto Auxologico Italiano.
I campioni biologici analizzati sono stati raccolti nel corso di una serie di spedizioni scientifico-umanitarie organizzate da Davide Peluzzi e Giorgio Marinelli, fondatori dell’associazione no profit Explora Nuunat International, e grazie all’aiuto degli Sherpa del Mount Everest Summitter’s Club.