“Una società che si chiude a riccio su se stessa ha già firmato la propria condanna a morte, è come uno che si chiude in una stanza senza porte e finestre e, per conservare se stesso, finisce per morire soffocato”. Così mons. Erio Castellucci, nuovo vescovo di Modena. “Mettere insieme accoglienza e integrazione non è come fare una passeggiata” ma “non possiamo accodarci ai facili slogan, che fanno leva sull’istinto di conservazione e vorrebbero identificare la diversità con il pericolo”.
Omelia di mons. Castellucci all’ingresso a Modena
“Ma voi, chi dite che io sia?”. La risposta di Pietro poteva sembrare ovvia: “tu sei il Cristo”. Ormai Gesù aveva dimostrato in molti modi di essere inviato da Dio, amato dal Padre, dotato di capacità ben superiori alle forze umane. Ma in realtà non era una risposta ovvia, perché Pietro non immaginava la spiegazione seguente di Gesù: che lui avrebbe dovuto “soffrire molto”, “venire ucciso” e “dopo tre giorni, risorgere”. Ma se è l’inviato di Dio, che bisogno ha di morire e soffrire per poi risorgere? Non è un’inutile messa in scena? Non è meglio evitare questa umiliazione e questo dolore e assicurarsi piuttosto – lui che può – una vita di successi, soddisfazioni e gloria? Infatti Pietro non accetta la spiegazione del Maestro e lo rimprovera, meritandosi a sua volta la qualifica più pesante che sia mai uscita dalla bocca di Gesù: “Satana!… tu non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini”. Gli uomini pensano in termini di carriera e tornaconto, Dio pensa in termini di servizio e di dono; gli uomini in termini di efficienza, Dio in termini di efficacia; gli uomini cercano una gloria a buon mercato, Dio la gloria attraverso la croce. È davvero una versione del “Cristo” che non ci aspetteremmo, ma è l’unica che apre alla salvezza: chi si aggrappa alla propria vita, secondo i criteri del tornaconto, della carriera, dell’efficienza e del facile successo, finisce per perderla; chi invece perde la propria vita per il Vangelo, cioè abbraccia la logica del servizio, del dono e dell’impegno, la salva, cioè la ritrova piena di senso. È la scommessa del Vangelo: vuoi aggrapparti alla tua vita o vuoi affidarti al Signore? Gesù scommette, per lui e per noi, che la via della gioia è l’affidamento.
Tanti amici di Dio, anche qui nella Chiesa di Modena-Nonantola, hanno accettato e vinto questa scommessa: affidarsi nella propria vita anziché aggrapparsi alla propria vita. E sono certo che moltissimi, anche oggi – nelle nostre case, nei luoghi di lavoro, di studio e di formazione, nelle scuole e negli uffici, negli ospedali e nelle case di riposo – accolgono e vincono la scommessa del Vangelo. Mamme e papà, nonne e nonni, giovani, adulti e anziani, sani e ammalati: quanta santità quotidiana e nascosta il Signore suscita ancora oggi, anche tra coloro che sembrano “lontani” e “distratti”! Ne ho fatto esperienza molte volte anch’io, soprattutto nell’incontro con i parrocchiani in occasione della visita annuale nelle loro case: tanta fede, speranza e carità nascoste nelle pieghe della vita domestica; santità che non fa alcuna notizia. È il tessuto dell’eroismo ordinario, sul quale ogni tanto emerge il ricamo dell’eroismo riconosciuto e proclamato. Come nel caso della dottoressa Luisa Guidotti, uccisa nel 1979 in Zimbabwe, dove operava con un’infermiera forlivese, Caterina Savini, e sepolta qui in Cattedrale, a pochi metri, che accettò la scommessa del Vangelo e fece della propria vita un dono ai malati, avendo sempre chiaro – come scrive più volte – che alla fine “saremo giudicati sulla carità”. O come i coniugi Bernardini, dichiarati Venerabili da papa Francesco pochi mesi fa, vissuti in una povertà dignitosa e con fede eroica, proprio perché quotidiana; uno dei loro figli concelebra con noi oggi. O come l’ingegner Uberto Mori, sposo e padre, scomparso 26 anni fa, la cui dedizione alla famiglia, alla professione e ai poveri derivava dalla convinzione che – come dice San Giacomo nella seconda lettura – “la fede senza le opere è morta”. O come una schiera di santi, beati, servi e amici di Dio, a cominciare da San Geminiano e San Silvestro per arrivare al seminarista Rolando Rivi e a don Luigi Lenzini, uccisi in odio alla fede – insieme a molti altri – durante il periodo della resistenza, che alla violenza fascista fece seguire in alcuni casi la violenza ideologica nazista e comunista, mentre su un altro versante faceva risaltare il coraggio di partigiani veri, formati alla scuola della libertà e della giustizia. Vorrei infine ricordare, tra gli amici di Dio, anche l’amato e compianto vescovo Antonio Lanfranchi, sulla cui tomba ho pregato questa mattina, e sul cui aiuto conto molto nella successione alla guida della diocesi.
Ma l’elenco sarebbe davvero lungo: solo Dio conosce il numero dei santi, sia di quelli domestici e nascosti, sia di quelli noti e riconosciuti. Sono loro le vere “eccellenze” della Chiesa. Il livello di eccellenza per noi cristiani si misura sulla concreta fedeltà al Vangelo, sulla fede che si trasforma nelle opere. Per questo non vorrei per me, se possibile, la qualifica di eccellenza e preferirei essere chiamato per nome. Siamo tutti in cammino verso la santità e il giudizio sul livello di eccellenza che raggiungeremo lo darà il Signore alla fine, se ci saremo affidati e non aggrappati, se avremo amato e non cercato il nostro tornaconto. Sono grato al Signore, perché so e ho già iniziato a sperimentare che in questa terra molti stanno cercando di fare della loro vita un dono e un servizio.
Saluto il Nunzio Apostolico Adriano Bernardini, che a nome di papa Francesco mi ha imposto il pallio, segno della comunione con il vicario di Pietro. Lo ringrazio anche personalmente, perché nel dialogo del 25 maggio scorso – un’ora che ha rivoluzionato la mia vita fino a quel momento abbastanza serena – mi ha aiutato pazientemente a capire che dovevo affidarmi alla Chiesa e non aggrapparmi ai miei progetti, pure degni e generosi. Saluto i vescovi intervenuti, che in queste settimane mi hanno ripetutamente espresso il loro affetto e incoraggiamento; e in particolare i vescovi Lino Pizzi e Giuseppe Verucchi, figli di questa Chiesa e padri in terra di Romagna. Grazie a don Lino per la sua autentica paternità e per avermi ordinato; grazie a don Giuseppe per la sua saggezza e il servizio che vorrà continuare a svolgere nella nostra diocesi. Saluto il vescovo Enrico Solmi, modenese, amico fraterno da tre decenni. Saluto il vescovo Bruno Foresti, che non è presente di persona, ma mi ha fatto sapere – con due lettere affettuose e incoraggianti – di essere presente con la preghiera. Esprimo anche un saluto che non so se arriverà a destinazione, ma confido che per vie note solo al Signore si depositi nel suo cuore: al vescovo Benito Cocchi, che poche settimane fa ho incontrato a Bologna; come mi aveva scritto una persona che gli è molto grata, don Benito “con un linguaggio che non è quello delle parole, sta testimoniando l’eloquenza della debolezza e la misericordia fedele del Signore”. Saluto e ringrazio l’amministratore diocesano don Giacomo Morandi, che dalla scomparsa del vescovo Antonio fino ad oggi ha retto con sapienza e fermezza la nostra diocesi. Saluto i presbiteri, i diaconi e i seminaristi, specialmente di Modena-Nonantola, con i quali troveremo occasioni per interrogarci insieme su come affidarci al Signore per un annuncio più efficace del Vangelo, che deve partire da una comunione salda tra di noi; altrimenti – lo proclamassimo pure con le lingue degli angeli, come dice San Paolo – senza la carità è come “un cembalo che tintinna” (1 Cor 13,1). Saluto le autorità civili e militari e i responsabili delle istituzioni, che ho già avuto modo di incontrare poco fa, e dalle quali ho ricevuto grande accoglienza e disponibilità a collaborare. Saluto tutti gli amici credenti e non credenti, cattolici o appartenenti ad altre confessioni cristiane, ebrei e membri di altre religioni. Come ripeteva San Giovanni XXIII e come ha ribadito il Concilio Vaticano II – al cui dettato vogliamo essere pienamente fedeli – è più ciò che ci unisce di ciò che ci divide; su questo terreno comune dobbiamo far leva per dialogare e confrontarci. E saluto con affetto tutti voi, convenuti in Cattedrale e in Piazza, specialmente i modenesi e i forlivesi; e anche quelli che sono rimasti a casa per seguire questa celebrazione attraverso la televisione o la rete; in particolare gli ammalati e gli anziani. Colgo l’occasione per salutare e ringraziare anche tutti coloro che hanno organizzato questa giornata, lavorando intensamente, le persone impegnate nel servizio d’ordine e liturgico, e i giornalisti impegnati nella comunicazione. Ringrazio i 4 forlivesi che non torneranno a casa stasera, la famiglia Kodra, che, nel rispetto dell’intimità, darà un tocco familiare al vescovado.
In questi mesi ho avvertito un affetto immenso da parte vostra, espresso anche attraverso lettere, telefonate e messaggi. So che avete molte attese; non aspettatevi però troppo da me. Se il paragone non suonasse ardito e irriverente, direi che l’unica risposta per me possibile alle vostre attese è quella di Gesù nel Vangelo di oggi. Non arrivo a profetizzare, come lui, che dovrò soffrire molto, essere rifiutato e persino venire ucciso – anche perché non saprei risorgere al terzo giorno – ma mi spingo a dire che insieme, come Chiesa di Modena-Nonantola, dovremo continuare a imboccare le strade che ci conducono ad affidarci di più ai progetti di Dio e aggrapparci di meno ai nostri piccoli disegni. Non dobbiamo avere paura della debolezza e della croce, perché la misericordia di Dio – alla quale attingeremo con più forza in questo anno giubilare – saprà trasformare la croce in un albero di vita. Da parte mia non garantisco dunque di risolvere i problemi, anzi – come mi ha detto un amico vescovo – sarebbe già molto se non ne creassi degli altri; assicuro però che, con l’aiuto dei nostri Santi ufficiali e domestici, ce la metterò tutta per affrontarli insieme a voi.