Perché il costo di funzionamento di una Authority di Pubblica Utilità deve essere pagata dalle aziende e non ricadere sulla fiscalità generale? Perché un tema di lotta ai monopoli ed alle concentrazioni viene pagata, principalmente, dalla società per azioni di medie dimensioni – che operano in mercati nei quali è alto il numero dei competitor? Perché la Commissione Tributaria Provinciale di Roma, a 9 mesi dalla instaurazione di un contenzioso, non ha ancora calendarizzato la prima udienza, mentre le aziende – il prossimo 31 luglio – saranno chiamate da quella stessa Pubblica Amministrazione a pagare con puntualità l’obolo? Nelle cronache di ordinaria vessazione fiscale delle imprese italiane c’è anche il contributo per il funzionamento dell’Autorità Antitrust, con il quale Confindustria Ceramica, assieme alle organizzazioni territoriali confindustriali di Bologna, Parma, Reggio Emilia hanno avviato un’ azione legale tesa ad ottenere la pronuncia di incostituzionalità del contributo stesso. Da parte sua, Confindustria Bergamo sta valutando le azioni più opportune da compiere sul tema.
A decorrere dall’anno d’imposta 2013, sono tenute al pagamento del contributo per il funzionamento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Antitrust) tutte le società di capitali che realizzano ricavi annui superiori a 50 milioni di euro, con un contributo, inizialmente pari allo 0,08 per mille, che è attualmente fissato allo 0,06 per mille del fatturato. Un prelievo che prevede un collar, ovvero una soglia minima ed una massima: 3.000 euro o 300.000 euro come tetto massimo, nel caso delle aziende più grandi.
Poiché questa pretesa finanziaria ha natura di tributo statale, il contenzioso per ottenere il rimborso di quanto versato è stato correttamente incardinato in ambito tributario e ha visto la presentazione, da parte di 21 aziende industriali italiane di altrettanti ricorsi alla Commissione tributaria provinciale di Roma, volti a far dichiarare l’illegittimità delle norme istitutive del tributo, anche a mezzo di un opportuno rinvio alla Corte Costituzionale.
Il contributo in oggetto, infatti, si configura come un ulteriore onere tributario dai dubbi profili di costituzionalità, che va a gravare sul carico fiscale delle aziende italiane, danneggiandone in modo improprio la capacità competitiva. In particolar modo, mediante le azioni promosse, le ricorrenti censurano l’illegittimità del contributo rispetto alle norme costituzionali poste a garanzia dell’iniziativa economica privata e delle corrispondenti norme a livello di legislazione Europea. Tra le violazioni più evidenti, poi, da un lato vi è il mancato rispetto del principio di uguaglianza tra soggetti nella medesima condizione, e dall’altro vi è la violazione del principio della progressività dei tributi in relazione alla effettiva capacità contributiva delle imprese, il quale incide in maniera più leggera sulle società di capitali di maggiori dimensioni, peraltro gravando su una sola fascia di soggetti (le società di capitale con un fatturato superiore ai 50 milioni di Euro) a fronte di un servizio di cui usufruisce tutta la collettività.
Da ultimo va detto che, a fronte della presentazione dei ricorsi nell’ ottobre 2014, i tempi per la discussione in udienza si prevedono molto lunghi (nell’ordine dei due o tre anni). Nel frattempo, ovviamente, le aziende devono continuare a pagare il contributo con cadenza annuale.