Documenti, testimonianze, fatti storici, ma anche costumi e tradizioni che forniscono lo spaccato di una Modena di periferia pervasa dalle tracce della presenza ebraica. E’ il mosaico di luoghi e residenze composto da Marta Affricano nel libro “Tra Naviglio e Panaro. La presenza ebraica nel territorio a nord di Modena”, realizzato con il contributo della Circoscrizione 2, in collaborazione con l’Archivio storico del Comune di Modena e la Comunità ebraica. “Un itinerario abitativo – piega Affricano – che si snoda nella zona compresa tra gli assi viari di via Canaletto nord e via Emilia est, cercando di fare luce su importanti famiglie ebraiche e connettendone le vicende con quelle della città durante il ducato estense e il Regno d’Italia”. Partendo dal cimitero ebraico di via Pelusia, l’itinerario si snoda tra le dimore di campagna di alcune famiglie, come gli Usiglio, i Formiggini, i Nacmani, i Sarcedoti, alcune ancora presenti, altre scomparse.
“Scavare nel passato del territorio – afferma il presidente Antonio Carpentieri – è tra i compiti della Circoscrizione. In primo luogo, perché la città si espande, muta rapidamente e rischia talvolta di cancellare le tracce del passato. Inoltre, perché le istituzioni devono farsi carico, per quanto possibile, di mantenere la memoria storica. In questo senso, la ricerca di Marta Affricano è solo l’ultima di una serie di approfondimenti promossi dalla Circoscrizione 2”.
I documenti fanno risalire alla seconda metà del Trecento l’arrivo a Modena di ebrei prestatori di denaro. Dal 1638 al 1859, con un’unica breve interruzione nel periodo napoleonico, gli ebrei abitarono nel ghetto al centro della città: erano circa 1500 e rappresentavano il 10 per cento della popolazione.
“L’interesse manifestato da Marta Affricano e dalla Circoscrizione 2 – aggiunge Attilio Uzzielli, vice presidente della Comunità ebraica di Modena e Reggio Emilia – conferma la volontà di considerare la popolazione ebraica come una componente importante, da tanti secoli, della cittadinanza di Modena”.
DAL CIMITERO DI VIA PELUSIA ALLE VILLE DI CAMPAGNA
Case circondate da prati ben curati, boschetti, padiglioni con fontane e laghi artificiali, siepi di bosso e, talvolta, accanto alla villa la limonaia. Nel XIX secolo si presentava così il paesaggio della zona nord est di Modena, resa fertile dalle limpide acque del Panaro. Nelle campagne poteva capitare d’incontrare Ciro Menotti con l’amico Angelo Usiglio che viveva nel ghetto in centro ma trascorreva l’estate nella villa di Saliceto Panaro, come molte famiglie ebree della ricca borghesia modenese. Seguendo un itinerario dal centro della città al settore nord est, la studiosa Marta Affricano individua la presenza ebraica nel territorio a nord di Modena, “Tra Naviglio e Panaro”. Il libro (pubblicato da Guiglia editore in Modena) è realizzato grazie al contributo della Circoscrizione 2, in collaborazione con l’Archivio storico di Modena e la Comunità ebraica di Modena e Reggio Emilia.
Attraverso documenti e testimonianze Affricano ripercorre i luoghi intrecciando le vicende di alcune famiglie ebree alla storia della città. Come quell’Usiglio che nel 1831 fu tra i 42 “animosi” e, esiliato, fu poi sepolto nel cimitero di Highgate, a Londra, dove morì dopo aver seguito per mezza Europa “Pippo”, l’amico Giuseppe Mazzini. Ben diverso il “prato”, tra la via postale per Bologna e via Pelusia, che gli ebrei modenesi ottennero per le sepolture agli inizi del Seicento, quando “l’ortazzo” divenne insufficiente, e che rimase in funzione fino al 1934.
Non lontano c’è l’ampia villa di Fossa Monda nord, in cui la famiglia Formiggini trascorreva il Kippur (giorno dell’espiazione) e il Succoth (festa delle capanne). E la residenza di Collegara nel cui giardino si schiantò, indenne, con il suo aereo Cesare Formiggini, il “capitano volante”, tra i primi a usare mezzi meccanici per coltivare i suoi campi, epurato dall’esercito con le leggi razziali e successivamente ritornato agli onori. In una villa nell’ansa del Panaro, sorge anche la casa natia di uno degli scrittori di maggior successo degli anni ’20, Guido Abramo Verona, che cambiò il nome in Guido Da Verona per assonanza all’amato D’Annunzio e in fuga dalle imbarazzanti radici ebraiche, lui che aveva convintamente aderito al fascismo.
Storie e dimore che conducono fino al limite est di Modena, in quella via Mavora percorsa dai ragazzi di Villa Emma in fuga verso la salvezza grazie all’ospitalità della popolazione modenese, una vicenda che, anche se appena accennata, conclude anche simbolicamente il libro perché “credo sia compito di ciascuno di noi e delle istituzioni – scrive l’autrice – mantenere viva la memoria di questa storia, perché l’animo e la mente dei ragazzi vengano immunizzati dalla violenza e dal razzismo”.