Due grandi musical in Piazza Maggiore, Sotto le stelle del cinema. Domani, venerdì 6 luglio, alle ore 21.45, è in programma Cabaret di Bob Fosse, seguito, sabato 7 luglio, sempre alle ore 21.45, da La febbre del sabato sera di John Badham.
Due proiezioni speciali, nella loro diversità: Cabaret sarà infatti presentato in una copia originale 35mm dye transfer Technicolor proveniente dall’Academy Film Archive; La febbre del sabato sera sarà invece proiettata nel nuovo restauro in 4K realizzato, per il 40° anniversario del film nel 2017, da Paramount presso i laboratori Technicolor e Deluxe a partire dal negativo originale 35mm e dalle tre matrici 35mm.

Venerdì 6 luglio, ore 21.45, Piazza Maggiore
CABARET (USA/1972) di Bob Fosse (124′)
Una frase che non si vorrebbe mai scrivere è: “Gli eventi internazionali recenti hanno reso ancora una volta attuale Cabaret”, ma eccola. Dopo un paio di anni caratterizzati da un aumento della xenofobia e del razzismo e dall’ascesa di partiti nazional-populisti in tutto il mondo, Cabaret ci serve ancora una volta da lezione pratica e da monito.
Non veniamo però qui a temere Cabaret, ma a lodarlo: per le sue canzoni argute, per i suoi balli vistosi e coinvolgenti, per le sue iconiche interpretazioni. C’è la teatralità, con il maestro di cerimonie Joel Grey; il divismo, con i grandi occhi di Liza Minnelli nel ruolo di Sally Bowles; il naturalismo, con Michael York che interpreta Christopher Isherwood; e
una struggente Marisa Berenson.
Il film ha 46 anni, ma in pratica non li dimostra. Per Bob Fosse era solo il secondo film dopo una carriera da ballerino e coreografo a Broadway e a Hollywood. Il brillante cambiamento introdotto da Fosse rispetto allo spettacolo di Broadway del 1966 consiste nell’allestire tutti i numeri musicali di Cabaret – tranne uno – sul palcoscenico del Kit Kat Klub.
L’eccezione è un’agghiacciante Tomorrow Belongs to Me, cantata alla luce del sole in un’ambientazione pastorale da una gioventù dorata, presagio dell’ascesa del nazismo.
Sotto le luci artificiali del locale notturno, un paese dei balocchi per la cultura trasgressiva della progressista Repubblica di Weimar, le labbra di Joel Grey assumono gradualmente un colore rosso sangue a partire da un riflesso distorto in bianco nero. Il verde tossico delle unghie affilate di Sally Bowles – “Divina decadenza!” – e gli ombretti (blu, lavanda, malva)
sono sorprendenti ma meno sinistri del rosso simbolico del soffitto di seta che incombe sul palcoscenico del Kit Kat Klub, della bandiera comunista con falce e martello, delle fasce da braccio cremisi con il bianco e nero delle svastiche e del sangue che sempre più spesso scorre nelle strade.
Con i suoi otto Academy Awards (compresi quelli per la migliore regia, la migliore attrice protagonista, il miglior attore non protagonista e la migliore fotografia per Geoffrey Unsworth), Cabaret resta il film che ha ricevuto il maggior numero di Oscar senza vincere quello per il miglior film (che andò al Padrino). (Meredith Brody)

Sabato 7 luglio, ore 21.45, Piazza Maggiore
LA FEBBRE DEL SABATO SERA (Saturday Night Fever, USA/1977) di John Badham
(118′)
Dave Kehr lo ha giustamente definito una “versione aggiornata al 1977 di Gioventù bruciata” e un “piccolo solido film, privo di complessità ma fatto con mestiere”. È però anche il dance movie di grande successo che catapultò John Travolta verso la fama dopo una breve carriera teatrale e televisiva (in particolare in I ragazzi del sabato sera). Da Follie d’inverno a Spettacolo di varietà fino a La La Land, la maggior parte dei musical
rivela un lato maniaco-depressivo, una tendenza ad attraversare i vari stati d’animo dalla depressione all’euforia. La febbre del sabato sera esaspera in maniera singolare questo schema oscillando tra due visioni contrastanti: il quartiere di Bay Ridge a Brooklyn è una sorta di inferno in terra in cui gli abitanti trascorrono le giornate a umiliarsi
reciprocamente, mentre la gloria e l’esaltazione vissute ballando nella discoteca 2001 Odissey assumono tratti paradisiaci e utopici. Chi ricorda il film con affetto tende a concentrarsi sul secondo aspetto, ma è l’interazione tra i due registri che gli conferisce energia. La sceneggiatura di Norman Wexler (Joe, Serpico, Mandingo) si ispira a un
articolo apparso sul “New York Magazine”, Tribal Rites of the New Saturday Night: l’autore, il critico musicale britannico Nik Cohn, una ventina d’anni dopo confessò che il pezzo era frutto d’invenzione più che d’osservazione.
Ma il film di John Badham – che nel director’s cut dura cinque minuti di più – fonda i suoi dettagli su un mondo perfettamente credibile.
Diversamente dalla maggior parte dei musical, in La febbre del sabato sera le incursioni nella pura fantasia sono poche; forse l’unica è quella in cui Tony e Stephanie si baciano nel momento più intenso della gara di ballo. Va comunque detto che la scena di ballo culminante è un’altra: il precedente assolo di Tony, la sera in cui Stephanie non si fa vedere in discoteca. Come suggerì Jerry Lewis nella sua parodia di questa scena in Bentornato,
picchiatello!, il tipo di fantasia suscitata dal ballo di Travolta è più solipsistica che romantica: l’affermazione di un trionfo solitario. (Jonathan Rosenbaum)