Lo dicono le scienze sociali, e lo confermano le nostre esperienze quotidiane, dai contesti lavorativi o scolastici fino alle reti di contatti sui social network. Qual è però il limite oltre il quale la collaborazione di gruppo diventa impossibile? Una risposta arriva da un nuovo studio realizzato da due ricercatori dell’Università di Bologna, Marco Casari e Claudio Tagliapietra.

La ricerca – da poco pubblicata sulla rivista PNAS Proceedings of the National Academy of Science – ha analizzato le dinamiche storiche di centinaia di comunità alpine, localizzate in provincia di Trento, che per secoli hanno gestito boschi e pascoli in maniera collettiva. Comunità che, tra il 1200 e il 1800, hanno mantenuto dimensioni estremamente stabili – circa 150 persone – nonostante nello stesso periodo la popolazione regionale sia invece più che raddoppiata: quando la crescita demografica rendeva una comunità troppo grande, il gruppo si divideva in due comunità autonome.

 

RISORSE CONDIVISE

Lo studio ha indagato storia e composizione di circa 250 comunità dell’area alpina in provincia di Trento. Gruppi che per oltre sei secoli hanno portato avanti un sistema di gestione collettiva delle risorse del territorio.

“All’interno di queste comunità – spiega Marco Casari, docente al Dipartimento di Scienze economiche dell’Università di Bologna – esistevano proprietà private, ad esempio sui frutteti o sui campi, ma i boschi e i pascoli erano invece considerati proprietà indivise ed erano gestiti a livello collettivo da tutto il villaggio”. Un modello di organizzazione nato dal basso e amministrato sul posto, in maniera autonoma rispetto alle autorità locali. “Le comunità – continua il professor Casari – non solo decidevano in maniera collettiva come organizzare l’utilizzo di queste risorse, ma controllavano anche che le regole stabilite venissero rispettate da tutti i componenti del gruppo, con una gestione interna della giustizia”.

Un modello che ha funzionato con successo per secoli all’interno di comunità che hanno mantenuto sempre dimensioni estremamente stabili, nonostante la crescita demografica nella regione. Un dato, questo, da cui si possono trarre importanti conclusioni sul funzionamento dei meccanismi di cooperazione all’interno dei gruppi umani.

 

150 PERSONE

Dai dati della ricerca emerge innanzitutto che la dimensione del gruppo è collegata a come le persone interagiscono tra di loro e non allo specifico problema che cercano di risolvere insieme. “Indipendentemente dal tipo di risorsa gestita, che si trattasse di aree destinate al pascolo degli animali o di boschi utilizzati per raccogliere legname – spiega ancora Marco Casari –, la dimensione delle comunità che abbiamo analizzato restava simile. Questo ci fa dire che sono fattori di ordine sociale, ad esempio il grado di diversità dei membri del gruppo, ad avere un ruolo predominante”.

Ma fino a che punto può crescere un gruppo prima che la cooperazione tra i suoi membri inizi a sgretolarsi? Le osservazioni dei  ricercatori suggeriscono una numerosità di circa 150 persone: dimensione, questa, che trova conferma anche nella letteratura antropologica come soglia di riferimento per molti tipi di gruppi umani, dai cacciatori-raccoglitori fino alle unità militari.

“La dimensione di 150 membri – continua Marco Casari – è legata non solo ai limiti cognitivi degli esseri umani nel gestire relazioni sociali significative, ma anche alle difficoltà relative alla decisioni collettive necessarie per controllare le risorse in comune”. Quando si supera questo numero, insomma, le relazioni da gestire diventano troppe e diventa anche troppo complesso far convergere le opinioni e le necessità di tutti su decisioni condivise e durature.

 

DATI STORICI

Esempi di comunità simili a quelle analizzate in questo studio sono stati individuati in tutto il mondo, dalla Svizzera alla Spagna fino al Sud America. E il tema della gestione dei beni comuni è stato al centro del lavoro di molti economisti, tra cui Elinor Ostrom, prima e finora unica donna ad aver ricevuto il premio Nobel per l’economia.

Questa nuova ricerca presenta però per la prima volta risultati basati su dati di lungo periodo, che guardano all’evoluzione delle comunità studiate attraverso oltre sei secoli di storia. Un lavoro che nasce da ricerche storiche e archivistiche sulle comunità delle Alpi italiane che proseguono da più di dieci anni, nell’ambito di un progetto di ricerca più ampio che ha già portato alla pubblicazione di studi su riviste internazionali quali il Journal of Economic History e Economics and Human Biology.​