Un centinaio di persone provenienti da tutta la regione ha partecipato stamattina a Carpi all’assemblea organizzata da Femca-Cisl, Filtea-Cgil e Uilta-Uil dell’Emilia-Romagna a sostegno della trattativa per il rinnovo del contratto nazionale del settore moda (tessili-abbigliamento, calzature, pelli e cuoio, occhiali e lavanderie) dell’artigianato.

“Un rinnovo – ha ricordato Rosalba Cicero, della segreteria nazionale della Filtea/Cgil – che riguarda 150 mila lavoratrici e lavoratori in Italia, circa 15 mila in Emilia-Romagna (il 70 per cento sono donne), 5 mila a Modena e provincia. Si tratta di occupati in imprese piccole e piccolissime (6/8 addetti per impresa), con una busta paga media di 850 euro al secondo livello e 900 euro al terzo livello”.
“La trattativa dura da nove mesi – ha spiegato Maria Luisa Toschi, della segreteria regionale Femca-Cisl – Il prossimo 28 marzo è in calendario a Roma un incontro dal quale i lavoratori si attendono segnali positivi”.

Dopo anni di una grave crisi che ha determinato l’espulsione di migliaia di addetti (nel 2003 in regione gli occupati erano 18.550, oggi 3.500 in meno), il settore moda è in lenta ripresa.
Il rinnovo del contratto nazionale, secondo i sindacati, è un passaggio fondamentale per favorire questa evoluzione positiva, dare dignità e valore al lavoro dei dipendenti, già caricati di ritmi pesanti, orari di lavoro stressanti e flessibilità estrema.

“Su orari e flessibilità le imprese pretendono di avere mano libera, mentre noi vogliamo ragionare in termini di gestione congiunta e concordata – hanno detto i rappresentanti di Femca-Cisl, Filtea-Cgil e Uilta-Uil dell’Emilia-Romagna – Il settore moda non può pensare di fare competitività sui costi, ma deve puntare sull’innovazione e qualità dei processi produttivi. Una buona manodopera è indispensabile per ottenere buoni prodotti”.

Mentre per la parte economica il contratto è scoperto dal 1° gennaio 2005, le normative sono ferme al 1997-98. Una delle priorità sindacali è il pieno riconoscimento della maternità, perché attualmente le lavoratrici madri percepiscono solo l’80 per centro del salario pagato dall’Inps, mentre i sindacati chiedono alle imprese di versare il restante 20 per cento, come previsto da tutti gli altri contratti nazionali.