Ogni anno in Italia circa un milione
di persone subiscono incidenti sul lavoro, e tra loro ci sono
230 mila donne, 120 delle quali muoiono in seguito all’infortunio. Ogni tre giorni, quindi, una donna muore sul posto
di lavoro. E questi dati non rispecchiano tutta la realtà,
perché non tengono conto del sommerso.

Per le decine di migliaia di donne che sopravvivono all’incidente riportando danni permanenti la vita non è facile,
dovendo superare una serie di problemi che vanno dall’inabilità fisica più o meno estesa alle difficoltà nei
rapporti con l’ambiente di lavoro, quando riescono a
rientrarvi, e con la famiglia. E’ quanto emerge da un sondaggio
realizzato dall’Anmil (associazione nazionale mutilati e
invalidi del lavoro), in collaborazione con l’Inail, su un
campione di 1.200 donne infortunate sul lavoro, e reso noto a
ridosso dell’ 8 marzo, Giornata internazionale della donna.


Il dato che salta subito agli occhi è che due
terzi delle donne di età superiore a 50 anni e tre quarti di
quelle più giovani hanno lasciato il lavoro che svolgevano al
momento dell’ incidente; un numero impressionante, circa il 40%,
ha subito pressioni più o meno rilevanti perché si
licenziasse. Un dato illuminante per capire il grado di
accettazione e di integrazione delle donne disabili nella vita
lavorativa, e che conferma la persistenza di un comportamento
illecito da parte di alcuni datori di lavoro, che rifiutano di
considerare l’ infortunata rimasta invalida una risorsa
lavorativa e quindi adoperano qualunque mezzo per potersi
liberare di un “peso”. Un altro dato interessante è che molte
donne intervistate hanno cambiato occupazione, trovandone una
maggiormente idonea.